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Signore e signori ecco il lavoro!

  • 24
    2023
    Feb
    2:12 pm
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“Nasce finalmente una democrazia di donne e di uomini”, così Teresa Mattei, la più giovane costituente italiana eletta nelle fila del PCI, celebrava l’approvazione del principio di eguaglianza nella Costituzione.

Credo che la domanda che ci dobbiamo porre, come cittadine e cittadini, come delegate e delegati sindacali sia: ma oggi è davvero così?

Per fare un quadro complessivo rivediamo alcuni articoli della nostra Costituzione:

Art. 3 – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 37 – La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. (…)

Art. 51 – Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. (…)

Art. 117 – (…) Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive (…)

Rispetto al nostro essere cittadine e cittadini gli argomenti che potrebbero essere richiamati per ragionare sull’attuazione del principio d’uguaglianza sono molti, non ultimo quello linguistico, spesso sottovalutato ma invece importante, perché rappresenta una serie di stereotipi.

Perché sarta, operaia, infermiera si e architetta, ingegnera, la presidente, no?

Per legare l’aspetto linguistico a quello sociale possiamo ricordare il “prefetto con lo cignon”, appellativo in apparenza gentile ma che invece riassumeva, e forse ancora riassume, la cultura del nostro Paese.

Il “prefetto con lo cignon”, così definita da alcuni organi di stampa, era Rosanna Oliva De Concillis, nota più semplicemente come Rosa Oliva, che dopo la laurea in giurisprudenza alla Sapienza di Roma, presentò domanda nel 1958 ad un concorso per la carriera prefettizia ma, per la Legge n. 1176 del 1919, si era vista rifiutarne l’ammissione perché donna.

Rosa Oliva si rivolse alla Corte costituzionale che con un pronunciamento nel maggio 1960 dichiarò che il concorso violava gli articoli 3, “uguaglianza senza distinzione di sesso” e 51, “accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”, della Costituzione.

Il pronunciamento della consulta riguardava però solo la carriera prefettizia. Fu necessaria una legge, la n. 66 del febbraio del 1963, per consentire “l’ammissione della donna ai pubblici uffici e alle professioni”; legge che, tra i molti aspetti, ha permesso alle donne di diventare magistrati.

Per questa sua battaglia di principio Rosa Oliva venne paragonata a Rosa Parks.

Rispetto alla politica, dobbiamo aspettare il 1976 per avere un ministro donna: Tina Anselmi ministro del lavoro e della previdenza sociale, rappresentante della Democrazia Cristiana.

Spostiamoci in ambito lavorativo, il nostro mondo.

Solo nel 1964 venne abolito il “Coefficiente Serpieri” del 1934, una legge fascista, cioè un sistema di valutazione in atto in agricoltura in base al quale il lavoro svolto da una donna veniva considerato pari al 60% di quello svolto da un uomo. Quindi una donna lavorava un giorno intero per ricevere poco più della metà della paga di un uomo.

Entriamo proprio in casa nostra: fino agli anni ’60 nel nostro CCNL vi erano tabelle con paga oraria differente tra uomini e donne, si sancivano all’interno delle fabbriche delle paghe anticostituzionali.

Bisognerà attendere l’Accordo interconfederale per la parità di retribuzione del luglio 1960, che recepisce anche la convenzione n. 100 dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) e il pronunciamento della Corte di Cassazione nel 1966 che dichiara nulli i contratti collettivi in contrasto con l’art. 37 per il definitivo superamento delle tabelle salariali per genere.

Erano gli anni Sessanta, il mondo è cambiato, non sarà più così. O forse no?

Prendiamo i dati della CGIL di Milano, sono i dati del Bollettino Milano al Lavoro, elaborati dal Dipartimento Mercato del Lavoro diretto da Antonio Verona.

La paga giornaliera media a Milano nel settore privato è di 121 euro lordi: 139 per gli uomini e 103 per le donne (sono paghe complessive quindi si riferiscono alla media tra operai, impiegati, quadri e dirigenti). Il salario medio lordo delle operaie è 55 euro, quello medio lordo di un dirigente maschio è 568.

La discriminazione salariale è una delle tante forme di violenza che le donne ancora subiscono.
Credo che su questo tema ci si debba prendere un impegno serio e concreto e provare in ogni contrattazione nazionale o aziendale a porre dei correttivi che riportino al rispetto del principio di uguaglianza della costituzione.

Di nuovo la legge ci fornisce un importante strumento il “Rapporto periodico sulla situazione del personale maschile e femminile” (art. 46 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n.198 e successive modificazioni).
In questo rapporto si chiede alle aziende di fotografare, ogni due anni, la popolazione aziendale evidenziando: il numero complessivo di occupati, le categorie professionali e il livello di inquadramento, le promozioni e le assunzioni, le ore di formazione, le retribuzioni per categoria professionale e per livello di inquadramento.

L’analisi di questa serie preziosa di informazioni inevitabilmente dimostra che in ogni azienda, di ogni settore, i salari femminili sono più bassi rispetto a quelli maschili, così come sono più penalizzanti le altre condizioni lavorative.

La novità legislativa di quest’anno, introdotta dalla Legge n.162 del 2021, è la “premialità di parità”, ovvero un esonero dei versamenti contributivi per le aziende che metteranno in campo iniziative atte a diminuire le differenze tra i generi notificate nella “certificazione della parità di genere”.

È buffo che si premi chi applica la legge, chi rispetta la Costituzione.

Lo Stato sembra dirci: riconosco il problema vi consegno uno strumento che lo certifica, ma non sono in grado di porre rimedio.

E tocca a noi delegate e delegati sindacali ad essere i protagonisti perché questo cambiamento finalmente avvenga. Utilizziamo questo strumento per poter andare a contrattare nei posti di lavoro dei correttivi per cercare di ridurre il gap salariale. Ci sono già alcune forme di contrattazione, sulla formazione per esempio, che utilizzando questi dati hanno reso più equa l’erogazione delle ore di formazione tra uomini e donne.

Facciamo un’analisi approfondita per luogo di lavoro e per la nostra categoria metalmeccanica, chiamando in causa anche Assolombarda e Confindustria, perché è anche dovere della parte datoriale applicare le leggi e non possono sottrarsi alle loro responsabilità sociali che la Costituzione definisce.

Se nel 1901 Angiolo Cabrini salutava la nascita della FIOM con “Signori ecco il lavoro” vorremmo pensare e sperare di non dover aspettare la fine di questo secolo perché si possa dire con pari dignità:

“SIGNORE E SIGNORI ecco il lavoro”