Non ero un rider, ma un ragazzo.

Maurizio Busi
Sono morto. Come lo so?
Perché l’ho sentita arrivare chiara e inconfondibile nella suaunicità. Nei pochi momenti che ho avuto per comprendere quello che stava accadendo l’ho percepita nel corpo e nel pensiero. Non ero preparato, se mai si possa esserlo, ero giovane e non me l’aspettavo.
Ora sono in un altro tempo, non misurabile ed immobile. Provo una confusa e fredda sensazione di buio profondo che percepisco non con i sensi ma con qualcosa d’altro che non so definire.
Non è come il buio che segue e anticipa il giorno in una rincorsa senza fine che porta con sè scaglie di luce, qui è tutto impenetrabile e opprimente, nulla è illuminato.
Ho perso la percezione del mio corpo e dei suoi confini, mi rimangono solo pochi e fragili pensieri che non capisco dove stiano e da dove nascano.
Probabilmente la morte, o quello che c’è di la, ci si presenta per come ce la immaginiamo e per il senso che le attribuiamo, ognuno ha la propria e chi la pensa nello stesso modo si ritrova.
Non ho avuto una educazione religiosa, e l’età mi ha tenuto lontano da pensare alla morte, da giovani si prova a vivere senza immaginare il termine, forse è per questo che mi ritrovo in questa condizione. Non l’ho pensata e ora ho solo pochi e sfuggenti pensieri.
Tutto questo però è poco interessante, basta pazientare per farne esperienza diretta, mentre quello che mi è successo potrebbe avere qualche interesse.
Sono morto giovane e la causa non è stata una irrispettosa malattia, ma in incidente un sabato sera in un anonimo incrocio stradale di una città definita d’arte.
Ero sulla mia bicicletta, avevo il casco, anche questo mio, e una di quelle enormi e aggressive macchine chiamate suv mi ha travolto e ucciso. Non è stato solo un tragico incidente stradale, e con quel costoso furgone la colpa non può essere che sua, è stata anche una morte sul lavoro, ero un rider che l’ultimo giorno di lavoro ha acquisito un vero diritto, quello di far parte di una luttuosa e incancellabile statistica.
Se l’incidente fosse accaduto anni fa il mio lavoro sarebbe stato quello di pony express, o andando più indietro di fattorino, ancor prima di ragazzo di bottega, mentre in questi anni di parole dal senso ingannevole sono diventato un rider, nulla di particolare ero uno che portava il pranzo o la cena a degli sconosciuti.
Per pagarmi gli studi facevo parte di quel nutrito e internazionale gruppo di uomini, le donne sono quasi inesistenti, che con qualsiasi condizione: – pioggia, freddo, caldo, vento, neve, buio – pedalano veloci per le vie cittadine consegnando cibo nel più breve tempo possibile per poi tornare al punto di partenza e ripartire per un’altra consegna.
Curioso è che spesso chi chiede una consegna pensi che la distanza tra la loro casa e il locale dove hanno ordinato sia la stessa che c’è tra i loro salotti e le loro cucine e per questa sbagliata percezione si lamentino dei tempi lunghi d’attesa.
Non so come l’incidente sia accaduto; mentre facevo le consegne guardavo il navigatore con l’indicazione della via pensando a quanto tempo mancava per raggiungerla nell’orario richiesto per sperare in qualche moneta di mancia, dovevo tenere d’occhio la strada, i pedoni che attraversavano distratti, le macchine … poi ero riverso in terra mentre reclamavo che si spostassero per lasciarmi un po’ d’aria, chissà se mi sentivano e mi capivano.
Il traffico si era bloccato, non si poteva passare, sentivo il suono dei clacson mischiati a parole confuse, percepivo anche lo stupore di chi s’aspettava uno straniero e invece ero io, un italiano, a fare un lavoretto e, ma non ne sono sicuro perché il mio punto d’osservazione era insolito, e innaturale la posizione, credo d’aver visto il proprietario del suv che controllava se c’erano ammaccature sul parafango, poi solo il suono dell’ambulanza.
L’ultima cosa a cui ho pensato prima di morire? Dove fosse finito lo zaino usato come contenitore del cibo, temevo che qualcuno me lo portasse via e che per il furto m’avrebbero licenziato.
Il mio timore era fondato, sono stato licenziato, ma non per lo zaino, ma perché non avevo portato a termine la consegna, ed in effetti hanno ragione, la cena a chi l’aveva ordinata non è mai arrivata, si saranno lamentati.
Potevano risparmiarsi questa conclusione, per il mio attuale stato il rapporto di lavoro era destinato a terminare comunque, evitandosi le poche righe di critiche apparse su qualche giornale locale.
Quando io ero già altrove è stata spedita una mail al mio indirizzo di posta che mi notificava il licenziamento. Il mittente non è stato un solerte ma distratto impiegato di un ufficio delle risorse umane ma un meccanismo di calcolo che con distaccata efficienza mi comunicava i loro cordiali saluti.
L’incidente che raccontiamo è realmente accaduto il 2 ottobre scorso a Firenze causando la morte di Sebastian G. che aveva 26 anni e lavora come rider per Glovo. Della sua vita conosciamo solo le pochissime note apparse ad integrazione della notizia. Non sappiamo cosa pensasse del suo lavoro, o se lo considerasse una buona opportunità per mantenersi agli studi e non gravare sulla famiglia o ne avesse una opinione negativa, oppure tenesse assieme i due aspetti: un personale giudizio positivo all’interno di una generale critica verso questo tipo di “lavoretti. Nei media, rispetto all’abituale esercizio di sterile costernazione, l’incidente di Sebastian ha avuto qualche riga in più perché il licenziamento gli è stato comunicato dopo la morte e attraverso una mail automatica generata da un algoritmo.
Glovo si è ipocritamente scusata offrendosi di pagare una parte del funerale. Ogni commento lo lasciamo a chi legge.
Ci siamo presi la libertà, probabilmente irrispettosa, di narrare in forma di racconto quanto accaduto attribuendo a Sebastian i nostri pensieri e credendo che questa storia, che aggiorna la “triste e incancellabile statistica” dei morti sul lavoro, riassuma in sè alcuni argomenti che caratterizzano il mondo del lavoro.
Il primo è la gig economy: un settore caratterizzato da grosse aziende come Uber o Deliveroo, che si autodefiniscono semplici piattaforme che mettono in contatto prestatori d’opera, così le aziende li definiscono, con i loro clienti fondando i rapporti di lavoro su una netta e crescete precarizzazione. Dal loro punto di vista chi lavora con loro, i riders, sarebbero lavoratori autonomi e non subordinati.
In Italia alcuni tribunali a fronte di cause intentate da riders si sono espressi sulla tipologia del contratto di lavoro definendolo di natura subordinata con quello che questa attribuzione comporta relativamente alle tutele normative e di sicurezza (Torino novembre 2021, Bologna febbraio 2022).
Le cause non sono finite perché le aziende coinvolte sono ricorse in appello e la giurisprudenza non ha una opinione condivisa anche per la carenza legislativa.
L’altro argomento, molto più ampio per diffusione, applicazione e implicazioni, sono i “meccanismi di calcolo”, gli algoritmi e la loro “potenza tra dominio e conflitto”.
Ridotti al loro significato più semplice gli algoritmi sono istruzioni inserite in un sistema di calcolo per risolvere un problema ed effettuare delle attività. Il loro funzionamento è determinato dai singoli parametri inseriti e dalle procedure che ne generano il risultato.
“Con la loro potenza di calcolo, e la loro apparente neutralità, questi numeri magici si presentano al nostro senso comune come i pass-partout per aprire ogni porta della nostra vita. Ma chi detiene davvero le chiavi degli algoritmi? Sono dispositivi neutri e inviolabili? O non sono invece espressioni di una strategia di orientamento e governo sociale sempre più strettamente controllata dai loro proprietari?” (M. Mezza.)
Tra i tanti problemi che gli algoritmi pongono c’è anche quello che riguarda la loro ideazione dato che sono immaginati e programmati prevalentemente da uomini e questo accade per l’ancora bassa percentuale di scienziate e ricercatrici in ambito informatico.
“La circostanza che a concepire gli algoritmi siano quasi esclusivamente uomini porta con sé il concreto rischio che essi immagazzinino stereotipi di genere, che si riproducono nel momento in cui vengono utilizzati” (M. D’Amico).
Per approfondire:
“Se il lavoro si fa Gig”, C. Crouch, Il Mulino, 2019
“Algoritmi di liberta”, M. Mezza, Donzelli, 2018
“Il capitalismo della sorveglianza”, S. Zuboff, Luiss, 2019
“Una parità ambigua”, M. D’Amico, Cortina Editore, 2020