Lavoratori in fuga: dimissioni procurate

Maurizio Borghi
Per avere un riscontro puntuale su una delle “notizie del momento” ossia il numero eclatante di dimissioni volontarie nello scorso anno, abbiamo intervistato i rappresentanti sindacali ed alcuni ex dipendenti di una multinazionale metalmeccanica con attività produttive, rete commerciale, service e logistica sul territorio nazionale, tra cui una sede milanese.
I delegati aziendali hanno fornito numeri puntuali, al netto di pensionamenti e mobilità concordate e i numeri indicati, specialmente nella realtà milanese, sono risultati significativi e coinvolgono sostanzialmente personale con età variabile dai 35 ai 50 anni e con anzianità aziendale minima di cinque anni.
Molti lavoratori di questa fascia si sono rivolti ai delegati per segnalare, proporre, sostenere una discussione con l’azienda che cogliesse questo disagio.
Si parla quindi di persone con buona esperienza e professionalità: perchè hanno lasciato l’azienda?
Le motivazioni comunicate sono state le seguenti:
– a fronte di un inquadramento professionale relativamente basso, spesso stoppati dai responsabili;
– cambi mansione in orizzontale e cioè l’assegnazione a mansioni equivalenti e non superiori, che inibiscono avanzamenti di carriera e quindi aumenti economici.
– riconoscimento (solo) verbale dell’ottima professionalità senza alcun riconoscimento ufficiale e quindi anche economico, giustificato da flebili scuse (“Non è il momento”, ma non lo è mai).
– offerte di lavoro a parità di mansioni meglio remunerate.
Quest’ultimo punto dimostra come il mercato del lavoro per professioni qualificate sia attivo. È quindi un errore non prevenire le dimissioni del personale professionalmente maturo, ed è sicuramente un errore comprimerne le aspirazioni.
Orari di lavoro e impegno eccessivi, con contrazione degli spazi per la vita privata: l’esigenza di un impegno lavorativo più umano e meno dispersivo è stato più volte sottolineato.
I lavoratori hanno segnalato aspetti come riunioni inutilmente lunghe, spesso protratte oltre l’orario di lavoro.
Su quest’ultimo aspetto la società e le rappresentanze sindacali aziendali hanno sottoscritto accordi in cui vengono individuate buone pratiche per evitare situazioni ortodosse; in realtà, sottotraccia, passa il messaggio che al mercato si deve sempre rispondere, a prescindere dall’orario di lavoro.
È risultato pensiero comune, tra i lavoratori, che gli anni della pandemia, con le note limitazioni, abbiano stimolato un pensiero di “libertà” e di desiderio di lavorare “il giusto” senza sacrificare altro tempo oltre a quello contrattualmente previsto. Le restrizioni e le limitazioni dei contatti e delle relazioni hanno quindi stimolato consapevolezze nuove o perse da tempo, favorendo il cambiamento.
In sintesi, la scelta di lasciare l’azienda sembra sia dettata da:
1. Offerte di lavoro significativamente migliori economicamente e professionalmente, con relative gratificazioni.
2. “Fuga” da organigrammi aziendali che sminuiscono competenze e impegno, causando tra l’altro perdite di tempo e dilatazioni della giornata lavorativa.
Non è secondario evidenziare come, spesso, chi si è dimesso, abbia manifestato dispiacere nel lasciare un azienda prestigiosa ma consapevole dell’errore da parte dell’azienda di non considerare a pieno il lavoratore quanto a capacità, professionalità e risultati raggiunti.
La rappresentanza sindacale ha evidenziato di aver più volte avviato la discussione con la controparte, non ricevendo molto più di un formale e cortese cenno di attenzione.
Se è vero che l’organizzazione del lavoro, come l’orario, è una prerogativa aziendale, è altresì vero che è fondamentale un effettivo ascolto tra le parti affinché possano migliorare ambiente e qualità del lavoro.
In tal senso la rappresentanza sindacale ha assicurato che manterrà la giusta attenzione e continuerà a stimolare la discussione.