La centenaria e il sindacalista

Maurizio Busi
Lavoro in una azienda che è prossima a festeggiare una data importante, l’anno prossimo diventerà centenaria. Nata nel 1923 e d’allora un numeroso gruppo di uomini e donne hanno trascorso chi molti anni, chi poche stagioni, dello loro vite lavorative tra i suoi muri.
Il secolo di vita non la sta affaticando, non mostra rughe evidenti e il passo lento di chi è anziano, ma parla la lingua del presente e conosce gli strumenti della modernità.
Il mio rapporto con lei dura da più di trent’anni, agli occhi di molti è una relazione importante, ed anch’io penso che ne abbia alcune caratteristiche.
Tra queste non c’è però l’assoluta fedeltà.
Ho un tradimento da confessare: aveva da poco festeggiato il suo settantesimo compleanno quando mi candidai alle elezioni per le rappresentanze sindacali. Decisione che secondo alcuni non rientra tra quelle che definiscono la fedeltà aziendale, almeno quella più ortodossa. Perché l’ho fatto non ricordo, probabilmente sarò stato spinto dalla natura del nostro rapporto che giorno dopo giorno imparavo a conoscere, e che si manifestava nei suoi comportamenti.
Ripensando a questa lunga esperienza sindacale mi ritorna nella mente una fastidiosa domanda che non posso cacciare malamente.
La domanda che riappare molesta è questa: che cosa è accaduto?
Per spiegarne il senso devo tornare agli inizi.
Quando fui eletto la rappresentanza sindacale era formata da undici persone, operai, impiegati e tecnici; due donne, gli altri uomini.
Per sostenerci molti colleghi nei loro portafogli, tra i documenti e i soldi, gli scontrini e le foto degli affetti, conservavano, credo con un sincero senso d’appartenenza, la tessera sindacale.
Ora la rappresentanza sindacale e composta solo da me. Questa condizione mi fa compagnia da molto tempo obbligandomi alla solitudine durante i confronti con l’arzilla vecchietta, mentre i portafogli non costudiscono nessuna tessera, lasciandomi come forza solo quella dei miei argomenti che spesso è poca, quasi nulla.
Dopo questa premessa posso tornare alla domanda.
Che cosa è accaduto, quali cause mi hanno portato al confine dell’insignificanza?
La prima, quella che non posso negarmi perché racconterei di una falsa realtà, è che ho delle responsabilità.
Lentamente, quasi senza accorgermene, ho iniziato a prendere distanza dai colleghi, a trovare non giustificabile, forse anche disonesto, il loro disinteresse per gli accordi sindacali di cui gratuitamente beneficiano godendone i contenuti come cose dovute, anzi donate per gratitudine.
Questa situazione mi genera sempre più spesso un cattivo umore che cesserà solo quando metterò il punto a questa esperienza ma che ora determina un impegno non adeguato al ruolo che ricopro ormai senza passione, come se fosse una abitudine.
Poi c’è tutto il resto.
Un resto storico, politico, economico, sociale, che non ho gli strumenti per raccontare ma di cui ho visto la poderosa forza che ha modificato l’azienda e chi vi lavora; come se fosse passato un impetuoso fiume che ha dilavato quello che c’era lasciando un mondo nuovo.
Nonostante l’età, in questo mondo nuovo la centenaria ha più fascino di me.
La sua capacità di seduzione, i suoi strumenti d’attrazione, il senso di protezione che offre, l’arte di persuasione che esercita con studiata intelligenza, presentano come accogliente e inclusivo il mondo che il fiume ha modellato.
In questo scenario io vengo percepito solo come un collega con cui perdersi in chiacchere, o a cui saltuariamente domandare qualche informazione sindacale ma nello stesso modo in cui si chiederebbe a un passante l’indicazione di una via.
Della via non interessa conoscere le ragioni del suo nome, perché uno scienziato invece che una scrittrice, perché il nome di un paese invece che una data storica, basta sapere dove sia.
Così accade per le rare domande che mi vengono poste su questioni sindacali, delle norme importa solo il contenuto non cosa l’ha determinato. Perché quella via abbia cambiato forma e lunghezza, perché sia diventata più stretta e tortuosa o ampia e scorrevole non interessa, solo il nome.
Se però mi alzo sulla punta dei piedi per guardare oltre i muri della centenaria vedo che altrove il fiume non ha avuto la stessa forza e non ha prodotto gli stessi cambiamenti.
In questo altrove, e nonostante l’acqua avesse un’energia proveniente da lontano, gli argini hanno resistito, si sono abbassati, incurvati, modificati, ma hanno tenuto.
…però non posso rimanere tutta la giornata a scrutare il mondo attorno come un meravigliato bambino, e prima o poi qualcuno mi richiamerà alla mia scrivania e ai miei pochi e semplici compiti, ma quando riappoggio le suole a terra e ripenso a quanto ho visto … beh un po’ di buon umore ritorna.
La scheda
La De Nora è stata fondata da Oronzio De Nora nel 1923 a Milano, dove il fondatore frequentò il corso di laurea in ingegneria elettrochimica al Politecnico.
La De Nora negli anni è diventata leader per processi industriali elettrochimici, depositando molti brevetti, e più recentemente nelle tecnologie sostenibili.
Nel 2020 la SNAM ha acquisito dal fondo finanziario Blackstone il 33% delle partecipazioni del Gruppo, frutto di una precedente operazione d’acquisizione. Il restante pacchetto è di proprietà della famiglia attualmente presente in azienda con la terza generazione.
L’obiettivo della partnership è lo sviluppo delle tecnologie per la transizione energetica e per il trattamento delle acque.
Il Gruppo viene spesso descritto come una “multinazionale tascabile” perché, nonostante le dimensioni contenute, ha siti produttivi in quattordici paesi tra cui, oltre all’Italia, Germania, Stati Uniti, Brasile, Giappone, Cina e India e cinque centri di ricerca.
Complessivamente i dipendenti sono oltre 1600; a Milano ha sede l’headquarter dove lavorano oltre duecento persone.
Il 2021 è stato chiuso con ricavi per 616 milioni di euro.
La società ha annunciato una IPO, ciò una offerta pubblica iniziale, per quotarsi in borsa entro il prossimo anno.