6. I consulenti e la loro storia d’amore: tra immagine e realtà

Laura Baldi
Ho letto con molto interesse l’inchiesta di Sara Del Dot, Marta Facchini, Mattia Guastafierro sul mondo della consulenza e del lavoro da consulente. Sono stati molto bravi nel cogliere appieno la discrasia tra l’immagine e la realtà.
Ci hanno svelato la carriera del consulente come una storia d’amore, che parte dal corteggiamento in università, poi ti scelgono, ti assumono e ti pagano anche bene, chiedendoti di far parte della loro patinata immagine, della loro grande famiglia. Danno ampio spazio e risalto ai “valori” della compagnia, spesso una multinazionale. Viene richiesto di condividere anche tramite i nostri social l’appartenenza, l’importanza di far parte di un gruppo accattivante e performante.
In questa fase di innamoramento ti presentano un percorso di carriera ambizioso, solleticando il tuo orgoglio e l’autostima; ti senti fortunato di essere stato scelto, di essere parte di questo mondo. Così quando le richieste dell’azienda diventano pressanti ti senti di dover dimostrare di essere all’altezza. Per questo spariscono i limiti temporali, non c’è più un orario di lavoro (in questo settore non esiste il cartellino): il mio tempo di lavoro finisce quando ho concluso ciò che mi è stato assegnato e se riesco a fare di più tanto meglio.
Si viene assunti con acronimi professionali altosonanti che danno importanza, ma spesso si rivelano vuoti di contenuti. Non viene fatto nessun affiancamento e si viene buttati dal cliente come Don Chisciotte, ma senza Sancho Panza. E qui capisci che te la devi cavare da solo.
L’inchiesta mette bene in evidenza la solitudine del e della consulente. In tutte le aziende di questo settore si percepisce il sentimento di isolamento e nessuna solidarietà.
Ma non siamo una grande famiglia? Certo che sì, ma una famiglia molto selettiva dove solo chi non si lamenta, chi ce la fa da solo o magari scavalcando gli altri è accolto e benvoluto.
Per chi ha difficoltà qui non c’è posto.
Come sono distanti l’immagine e la realtà.
Ma tutti i sorrisi e le strette di mano? E le pacche sulle spalle dei video aziendali? Non sono veri? Nei video ci sorridono donne e uomini in ugual misura, ma come mai i capi progetto sono quasi sempre solo uomini? È una famiglia patriarcale.
All’interno di queste aziende ci sono anche i Diversity Manager (responsabili per la tutela della diversità), ma poi si nega l’esistenza della parità di salario tra uomini e donne, che invece ben si evidenzia dai Rapporti sulla situazione del personale maschile e femminile che per legge ci devono consegnare.
Ma niente quei numeri non riflettono, anzi distorcono la nostra realtà patinata, sostengono, soprattutto i manager uomini.
Come fare, come reagire a questo senso di smarrimento, di isolamento di solitudine? Non basta cambiare azienda perché tutte queste dinamiche sono presenti ovunque in questo settore, come si legge nell’inchiesta.
Come nelle storie d’amore non più corrisposte bisogna guardare altrove, cercare un altro partner. Queste aziende spesso sono sindacalizzate, ma difficilmente si parla con il sindacato, anzi lo si evita. Certamente il sindacato non sa corteggiarli in maniera appropiata come l’azienda, invece che video e team meeting si rivolge a voi con comunicati e assemblee usando un linguaggio non adatto a una storia d’amore, ma per non essere sopraffatti dalle richieste, dalle pressioni e dalle scadenze, bisogna cercare aiuto e mettersi insieme.
Sindacato significa insieme per la giustizia, quella giustizia che da soli non si può ottenere.
Guardate all’altro e cercate le delegate e i delegati sindacali, non vi vorranno solo performanti e consenzienti, ma vi spiegheranno che il posto di lavoro non può essere una grande famiglia. Vi consegneranno il contratto nazionale di lavoro, che le aziende spesso non danno, dove si parla di orario di lavoro, di retribuzione dello straordinario, dei riposi compensativi, dell’importanza delle ferie e del diritto alla malattia. Cercheranno un modo per rendere tutti questi diritti esigibili.
Cerchiamo di riportare nei nostri luoghi di lavoro un po’ di giustizia, insieme.