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2023, un brutto inizio

  • 19
    2023
    Gen
    12:21 pm
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Il 2023 è partito subito male: grazie alla scelta del governo Meloni di eliminare lo sconto sulle accise che aveva introdotto Draghi nella primavera del 2022, il prezzo dei carburanti è aumentato.

Si è registrata un’impennata soprattutto in autostrada: in modalità servito la benzina arriva a costare 2,392 euro al litro sulla A1, nel tratto da Roma a Milano, mentre il diesel viaggia addirittura verso 2,5 euro al litro. Sono aumentati anche i pedaggi autostradali: con il nuovo anno è infatti scattato l’aumento del 2% per i pedaggi di Autostrade per l’Italia e a luglio è previsto un altro aumento dell’1,34%. Sono arrivati, inoltre, gli aumenti nel trasporto pubblico locale, alla faccia dell’ambientalismo, col ritocco al rialzo del prezzo dei biglietti per bus e metro: a Milano il biglietto  è aumentato da due euro a due euro e venti centesimi.

Vignetta di Giovanni Beduschi

Dopo le polemiche che inevitabilmente hanno infuriato, visto che Giorgia Meloni aveva dichiarato in campagna elettorale che le accise sulla benzina le avrebbe eliminate, è stato approvato il cosiddetto decreto trasparenza carburanti che introduce esclusivamente delle misure di maggior controllo sui prezzi applicati dai gestori, ma nessun taglio alle imposte. Poi si ripropongono i 200 euro di bonus carburante che i datori di lavoro possono erogare in affiancamento ai fringe benefit e un bonus trasporti che consiste in un contributo di 60 euro accessibile per tutto l’anno per i cittadini e le cittadine con un reddito complessivo fino a 20.000 euro. Misure del tutto insufficienti per far scendere i prezzi e sostenere il salario di chi è più in difficoltà.

Il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo recentemente ha dichiarato che al momento l’inflazione per il 2023 è prevista a +5% , ma che potrebbe andare anche peggio. Questo +5% aggiunto al più 11,5% del 2022 significa una vera e propria stangata. Blangiardo ha sottolineato che l’aumento dell’inflazione colpisce più ferocemente i lavoratori e le lavoratrici dipendenti con salari bassi e medi. Di fronte a una situazione di inflazione crescente ci si è messa anche la BCE che nel 2022 ha iniziato ad alzare i tassi di interesse, producendo un effetto negativo prima sui mutui e, successivamente, sui prestiti.

La necessità di frenare l’inflazione e aumentare i salari
È evidente che nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro questa situazione crea dibattito e sono tanti i lavoratori e le lavoratrici che si rivolgono ai delegati sindacali per avere un consiglio. Ci sono persone che per raggiungere il luogo di lavoro stanno spendendo fino a 600 euro al mese, a causa dei rincari del carburante e delle autostrade. Poi ci sono i tanti che sono in difficoltà per i mutui: sono, soprattutto, i lavoratori più giovani che acquistano una casa per la prima volta. Si sono visti aumentare le rate del mutuo a tasso variabile e sono totalmente disorientati. Ci sono quelli che hanno bisogno di un prestito: il costo per le cessioni del quinto dei dipendenti privati è aumentato.  Alcuni di loro, per far fronte alle difficoltà, chiedono degli anticipi al fondo previdenziale, rischiando di sperperare quanto risparmiato per realizzare la seconda gamba della previdenza, oggi assolutamente necessaria per avere pensioni dignitose. Insomma, le persone che rappresentiamo sono molto arrabbiate e chiedono al sindacato di intervenire.

La contrattazione aziendale
Di fronte ad una situazione di questo tipo, come Fiom stiamo provando a recuperare più salario possibile attraverso la contrattazione nelle aziende.
L’elemento salariale contrattato nella maggior parte dei casi è stato, ovviamente, il premio di risultato; a esso si è aggiunta, soprattutto a partire dalla seconda metà dell’anno scorso, la contrattazione di welfare e fringe benefits. In virtù del decreto aiuti quater, infatti, era stato innalzato per il 2022 il tetto per la loro esenzione fiscale, proprio per consentire ai lavoratori di farsi rimborsare dal datore di lavoro anche il costo delle utenze domestiche, acqua, luce e gas, fino all’importo massimo di 3.000 euro. Peccato che sia stata solo una possibilità data ai datori di lavoro, non un obbligo; possiamo dire fin d’ora che, rispetto al nostro osservatorio, questo tipo di misure ha riguardato meno della metà delle imprese in cui solitamente contrattiamo.
Analizzando gli accordi sul premio di risultato nell’ultimo quadriennio abbiamo verificato che, in media, la contrattazione sul premio di risultato nel territorio di Milano “vale” 1.690 euro lordi: sono stati mappati i valori massimi ottenibili. Non è peraltro ricavabile dai testi degli accordi un dato senz’altro più pregnante: ossia, quanto in concreto i premi di risultato, per loro natura variabili e legati ai risultati, abbiano “pagato” a lavoratori e lavoratrici. È facile intuire che quello che siamo stati in grado di contrattare a livello aziendale non sia assolutamente sufficiente a ripagare le persone che rappresentiamo del potere d’acquisto perso dalle loro retribuzioni. Federconsumatori ha calcolato che le famiglie, nel 2022, hanno speso circa 3.500 euro in più all’anno a causa dell’inflazione. Con la contrattazione che abbiamo effettuato nelle aziende siamo riusciti a portare a casa molto meno di quella cifra; e sappiamo bene che nella maggior parte delle piccole aziende, quelle in cui il sindacato non entra, la contrattazione aziendale non si è neppure fatta. In questo momento, nel settore metalmeccanico, gli effetti dell’inflazione sono ancora mitigati dal numero di ordini: fino alla fine del 2022 il numero di ore lavorate, mediamente, è stato alto. Si sono fatti tanti straordinari, le aziende hanno chiesto più turni, più flessibilità: lo stipendio è stato più alto rispetto ad altri periodi.
Ma già dall’inizio di quest’anno lo scenario è cambiato: il superindice dell’Ocse, concepito per anticipare di 6-9 mesi le tendenze economiche future, ha indicato un «rallentamento della crescita» in gran parte delle grandi economie mondiali, Italia inclusa. Quello che possiamo vedere dal nostro osservatorio è che il 2023 è iniziato con ordini in calo e con un aumento delle richieste di cassa integrazione.

Le proposte della Cgil
È evidente che, a fronte di questo quadro, è necessario che il salario portato dal contratto nazionale cresca in maniera adeguata. Dobbiamo dirci una volta per tutte che il sistema contrattuale stabilito dal Patto della Fabbrica del 2018 si è rivelato inadeguato e che, nella situazione odierna è, più che mai, superato. I contratti nazionali vanno adeguati all’inflazione crescente: continuare a calcolare gli aumenti salariali sulla base dell’indice Ipca depurato dai prezzi energetici non è accettabile e mantenere questo sistema significa autorizzare una riduzione salariale. Questo indice va cambiato, perché non tiene conto dei fortissimi rincari dei beni energetici registrati negli ultimi mesi. Confindustria non può pensare di continuare a parlare di contrattazione legata alla produttività nelle aziende: i dati parlano chiaro. I salari, che in Italia sono tra i più bassi in Europa, vanno aumentati in altro modo.

La Cgil propone di recuperare almeno una mensilità media all’anno, per battere l’inflazione e arginare la recessione. In che modo? Tagliando di cinque punti il cuneo contributivo, cui aggiungere il recupero del fiscal drag e il rinnovo dei contratti nazionali che non si fermi all’inflazione Ipca.

Cos’è il taglio del cuneo fiscale oramai è noto: è quella somma delle imposte che pesano sul costo del lavoro, sia per i lavoratori, che per i datori di lavoro. Tagliandolo si darebbe un aiuto concreto ai lavoratori, con lo Stato che pagherebbe per loro parte dei contributi.

Cos’è, invece, il fiscal drag? Letteralmente significa “drenaggio fiscale” e indica la situazione in cui si verifica un aumento della pressione fiscale sul reddito per colpa di una forte inflazione. Insomma, se i prezzi aumentano, anche i redditi in parte salgono per adeguarsi: questo può portare il reddito a sconfinare nello scaglione di imposta superiore, venendo tassato maggiormente nonostante il potere di acquisto dello stesso resti immutato o addirittura scenda.

Secondo la Cgil per abbattere questo fiscal drag oggi si potrebbe creare un automatismo che colleghi le detrazioni da lavoro dipendente all’inflazione reale. In questo modo salirebbe lo sconto sulle tasse e i contributi da versare allo Stato e agli enti di previdenza.

Il governo in carica sarà disponibile ad accogliere questa proposta? Ho qualche ragionevole dubbio che questo accada. E quindi cosa facciamo? Il 16 dicembre è stato proclamato uno sciopero dalla Cgil e dalla Uil contro la manovra economica. La questione dell’inflazione e della necessità di aumentare i salari è la priorità su cui dobbiamo continuare a battere. Molte delle persone che rappresentiamo chiedono di dare continuità alla nostra iniziativa. La risposta dovrebbe essere quella di aprire vertenze, a tutti i livelli, sulla questione salariale: a livello aziendale, a livello di categoria nazionale e a livello confederale. Il congresso della Cgil sta proseguendo e si concluderà a Rimini il 18 marzo 2023. Non sarebbe male se, in questo dibattito in cui l’autocelebrazione, spesso, ha una parte importante, si discutesse di più di come affrontare, concretamente, un’emergenza che ha bisogno di risposte immediate. Prima che la situazione peggiori.