Forza Lavoro Body Wrapper

1. Viaggio nel mondo della consulenza in Italia

  • 02
    2022
    Nov
    5:27 pm
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Seminari all’università, gazebo posizionati dove passano gli studenti per farsi conoscere dai futuri lavoratori, decine e decine di offerte per figure con diversi livelli di esperienza su LinkedIn e su altre piattaforme dedicate agli annunci professionali. Il mondo del lavoro in consulenza è in grado di raggiungere e agganciare una persona ancora prima della fine degli studi.

Alcuni impiegati del settore lo chiamano in modo evocativo “reclutamento predatorio”, una sorta di “pesca a strascico” attraverso cui le grandi aziende di consulenza cercano di attrarre e raccogliere giovani lavoratori, anche alle prime armi, per introdurli in questo mondo tanto celebre quanto complesso sotto diversi punti di vista.
Non è raro, soprattutto nelle grandi città come Milano, sentire parlare della consulenza come di un mondo dinamico e variegato, con prospettive di carriera incredibili e salari decisamente allettanti, che per un neolaureato senza esperienza partono da una retribuzione annua lorda (RAL) di circa 26mila euro, a salire (dopo tre o quattro anni si raggiungono facilmente i 35mila). Per chi abita nella metropoli è pressoché impossibile non conoscere almeno un lavoratore della consulenza. Ma per chi non è del settore le domande sono sempre le stesse: che cosa fa un consulente? Di che cosa si occupa? Quali sono le sue mansioni?

La consulenza: un mondo complesso e pervasivo
Esistono vari generi di consulenza: un consulente può lavorare nel settore finanziario, informatico, bancario, nel marketing e in molti altri ambiti quali la formazione e le risorse umane. Il suo compito, come lascia intendere il termine stesso, è affiancare una realtà aziendale nel raggiungimento di un obiettivo, fornendo competenze esterne che in quel momento l’azienda non ha. Quello del consulente è un mestiere che arriva a toccare interi ecosistemi lavorativi, e infatti basta guardarsi un po’ attorno per capire che le società di consulenza sono letteralmente ovunque. Sui giornali, che spesso danno notizia di iniziative promosse dalle società stesse, su cartelloni pubblicitari, nelle aziende, nelle università. Ed è proprio qui, nei luoghi di apprendimento, che è molto facile trovare un bacino fertile di nuove leve da avviare alla carriera.
Nel 2021 in Italia sono stati 3.300 i neo-laureati reclutati nel settore (il 36% delle nuove assunzioni) secondo Assoconsult, l’associazione che rappresenta le imprese di consulenza. Sono stati assunti in prevalenza da società di grande e media dimensione, dove hanno rappresentato circa il 52% dei nuovi arrivi. Invece la gran parte (circa il 64%) dei nuovi impiegati aveva già esperienza lavorativa, maturata spesso in un’altra società di consulenza. Nel complesso nel 2021 nel Paese il settore ha occupato oltre 52mila persone. I professional (i lavoratori che possiedono conoscenze e capacità tali da ricoprire uno specifico ruolo, ndr) sono stati circa 45.900, pari al 90% degli addetti del settore. Il personale dello staff segretariale e amministrativo ha superato le 6.200 unità.
“Magari sei un neolaureato, le società ti offrono soldi e ti promettono che in pochi anni arriverai molto in alto”, racconta a Forza-Lavoro Simone Robutti, organizzatore di Tech Workers Coalition Italia, una realtà autonoma di lavoratori tech dei quali molti sono passati almeno per qualche mese attraverso una o più società di consulenza. “Immagina di essere ancora uno studente e di vederti arrivare tutta una serie di offerte. Magari intravedi anche un contratto, ti offrono una bella cifra per essere una persona alle prime armi o addirittura ancora in fase di studio. Le facoltà cui guardano sono soprattutto informatica, matematica, economia ma anche sociologia…”
Offerte che arrivano da diverse fonti. Su LinkedIn ad esempio sono migliaia le opportunità di lavoro, ma anche le stesse Università organizzano eventi appositamente per incentivare gli studenti a entrare in questo mondo. Alcuni corsi sono organizzati in partnershipcon queste aziende, (come l’Executive Master in Lobby, Relazioni Istituzionali e Human Capital della Luiss Business School, realizzato con Deloitte oppure l’Executive Master FSI Smart Automation del Politecnico di Torino, sempre con Deloitte) perdendo completamente la radice critica che dovrebbe caratterizzare questi luoghi di cultura.
Ma anche il passaparola, in questo mondo, ha una funzione cruciale: spesso infatti (e questo non avviene soltanto nelle società di consulenza) sono gli stessi lavoratori a essere incentivati a reclutare nuove risorse attraverso un sistema di compenso economico, un “bonus” per chi porta nuovi impiegati, elargito dall’azienda stessa. Così un giovane lavoratore agganciato da incredibili promesse approda nel mondo della consulenza con la motivazione alle stelle.

Ed è qui che inizia il suo viaggio.

Iniziare una carriera in consulenza: prospettive e contraddizioni
“Ci sono due cose che permettono di riconoscere subito un consulente alle prime armi: il completo della taglia sbagliata, le occhiaie e lo zainetto brandizzato. O peggio il trolley”. Simone Robutti racconta così la sua visione del neo-consulente. Una persona giovane, ancora in fase di adattamento a un mondo gigantesco, che inizia a farsi spazio come lavoratore, come risorsa, come membro di questa “grande famiglia”.
A volte il neo-consulente deve adeguare le proprie competenze a una mansione sconosciuta, ricevendo molte più responsabilità di quante sarebbe in grado di portare sulle spalle. Alcune fonti con cui abbiamo parlato, ma anche testimonianze reperibili sui forum dedicati, raccontano che non è raro vedere neolaureati, o addirittura studenti non ancora laureati, essere proposti come senior in progetti di consulenza informatica mentre magari hanno ricevuto una formazione matematica e non hanno quindi competenze adeguate né hanno mai visto gli strumenti che devono utilizzare, dovendo imparare tutto velocemente.
Inoltre queste figure appena approdate in azienda rappresentano un ponte prezioso per raggiungere altri ragazzi e ragazze che a breve usciranno dai circuiti accademici. “C’è una diffusa cultura del trattenere, dell’incentivo a restare”, racconta Robutti. “Il primo anno non ti mettono sotto pressione, sei più tranquillo, rilassato, ti leghi all’azienda, così poi ne parli con i tuoi compagni di corso o con gli amici che sono ancora in università per coinvolgerli, per suscitare in loro interesse”.

Arianna (nome di fantasia), ex dipendente di una società che abbiamo intervistato, è approdata in consulenza grazie al consiglio di un amico. “Ho trovato una posizione su LinkedIn come Marketing Analyst e ho applicato. Ho sostenuto diversi colloqui e alla fine mi hanno assunta perché ‘sembravo volenterosa”, racconta.
“Una volta dentro, di marketing non ho visto niente. Mi hanno subito messa su un cliente tedesco da cui sono stata mandata in trasferta. Appena arrivata mi sono trovata ad avere a che fare con questioni molto tecniche, non capivo niente, i miei colleghi più esperti dovevano insegnarmi tutto. Non mi sentivo affatto nell’ambiente giusto.”

Un lavoro pieno di criticità: tra body rental, straordinari e subcultura tossica
L’organizzazione del lavoro ricorda un sistema a scatole cinesi, fatto di appalti e subappalti. L’architettura si regge sulle tipiche collaborazioni a progetto, i contratti che contraddistinguono l’ambito della consulenza. Il committente – di solito una multinazionale o un’azienda di grandi dimensioni – ha bisogno di tre programmatori per sviluppare il suo sito web e seguirlo passo dopo passo? La società di consulenza li mette a disposizione in cambio di una commessa. Assegnati alla mansione, i professionisti si occupano solo di quella, mente e corpo, nel senso che spesso vengono trasferiti anche fisicamente dal cliente.
“Formalmente si chiama ‘collaborazione a progetto’. Nei fatti si tratta di body rental”, spiega Laura Baldi, delegata della Fiom di un’importante società di consulenza di Milano. “È un affitto o, meglio, una somministrazione di lavoro. Il consulente viene prestato, e spesso trasferito, al cliente per un periodo di tempo che può durare mesi o anni, a seconda del progetto. Pur essendo un dipendente subordinato della società di consulenza, si trova a lavorare in un’organizzazione di cui non fa realmente parte ed è sottoposto al suo giudizio”.
I vantaggi per azienda committente e fornitrice sono presto detti. La collaborazione a progetto consente alle società cliente di risparmiare sul costo del personale, garantisce flessibilità e la possibilità di utilizzare manodopera qualificata per tempi più o meno brevi, senza ricorrere all’assunzione ma solo al pagamento della prestazione. Per il consulente, invece, significa spesso vivere una condizione di grande incertezza lavorativa, una sorta di limbo, soprattutto se l’ordine dalla base è quello di creare intimacy, confidenza, con il cliente, soprattutto nel caso di una commessa molto fruttuosa. Considerato il tempo che si trascorre “in prestito”, non è raro che un consulente stringa relazioni più solide con l’azienda cliente, dove trascorre la gran parte del suo tempo, piuttosto che con la casa madre.
Il body rental determina tutta una serie di altri problemi alla conclusione del progetto. “Torni alla base, devi occuparti di altro ed è come ricominciare un nuovo lavoro daccapo”, dice Baldi. “La sensazione è di essere sempre a un passo dal collasso. È un continuo ballare da un progetto a un altro. E non puoi davvero approfondire niente”, conferma il Tech Worker Robutti.
Entrambi concordano che l’aspetto peggiore resta la qualità del lavoro, talvolta deterioratasi in regime di smartworking: lo stress che diventa esaurimento professionale (la sindrome da burnout), il lavoro nel weekend e oltre il normale orario, gli straordinari non pagati, la pressione psicologica, la continua valutazione del rendimento. “Nei primi anni non staccavo mai il telefono. Non lo facevo perché avevo paura”, racconta l’ex consulente Arianna. “È capitato più volte che mi rimproverassero, se non fossi reperibile. Tenevo tutto acceso, avevo l’ansia di rispondere alle mail e ai messaggi“. Una ruota per criceti da cui non è facile scendere, a maggior ragione se c’è chi ritiene di svolgere la miglior professione del mondo e si sente gratificato sotto pressione perché coccolato sin dall’assunzione con bonus, benefit e salari più che dignitosi.

“Io la chiamo subcultura tossica del consulente”, spiega Robutti. Un registro di comportamenti che comprende bullismo, esaltazione e prevaricazione, condito da un lessico specifico (anglicismi, a volte utilizzati impropriamente) e da un tipico modo di vestire (completo o tailleur). “Questi sono i tratti tipici del consulente medio, il cui unico obiettivo è quello del fatturato”.

Mettere in dubbio il dogma della performance, oltre a essere vissuto come un tradimento dei valori aziendali da parte di capi e colleghi, incide sulla valutazione di fine anno che il manager di area redige nel tradizionale colloquio one-to-one. “Se ti lamenti o non sei abbastanza performante, rischi di non essere più assegnato ai progetti non facendo fatturare l’azienda”, spiega Baldi. In termine tecnico si diventa un unbilled (vedi glossario): una spirale che inizia con un piano di recupero, il cosiddetto PIP (Performance Improvement Plan) che in teoria dovrebbe riabilitare professionalmente il dipendente ma nella pratica si trasforma in mobbing, e che nei casi peggiori può portare dritto al licenziamento.

Uscire dal mondo della consulenza
C’è anche chi decide di uscire dalla propria azienda “perché ha trovato un’offerta più vantaggiosa” o “perché non sopporta più i ritmi di lavoro cui è sottoposto”, hanno raccontato a Forza Lavoro le fonti consultate. Nel 2021, secondo Assoconsult, a fronte di 6.150 nuove assunzioni, oltre 4.000 professional (pari a circa il 17% dell’organico) hanno lasciato le grandi società di consulenza. Si sono mostrate più contenute, invece, le dinamiche che hanno riguardato le imprese più piccole: le entrate si sono attestate al 14% degli organici e le uscite attorno al 4%.
Stando all’osservatorio del managing consulting, il “percorso di carriera” finisce in media dopo un’esperienza di 2-4 anni al termine del quale si può verificare anche il passaggio in un’azienda manifatturiera o di servizi. “Questo conduce all’esigenza di trovare sempre nuovi lavoratori. Da qui la necessità di trattenere il personale all’interno della società, anche attraverso la strategia degli incentivi“, spiega il Tech Worker Robutti. Dinamiche che mirano a limitare l’attrition, cioè il tasso di abbandono dell’azienda così come è denominato nel linguaggio aziendale.

I diritti dei lavoratori: tra tabù, isolamento sindacale e organizzazioni autonome
Orientarsi nella giungla aziendale, alla ricerca di diritti e tutele, è un’impresa tutt’altro che semplice. A maggior ragione se chi dovrebbe rappresentare la forza lavoro, cioè il sindacato, è o tagliato fuori o inesistente. “Sindacalmente è davvero un disastro”, spiega Laura Baldi. “Manca proprio la consapevolezza che possa esistere una forma di rappresentanza, specialmente tra i più giovani”.
La scarsa radicazione del sindacato nella consulenza può essere spiegata in vari modi: da un lato è connaturata alla tipologia stessa del lavoro, fluido e relativamente moderno, fatto di continue trasferte dal cliente e spesso caratterizzato dall’assenza di una sede fisica; dall’altra è una condizione che si è notevolmente accentuata in regime di smart working, con la digitalizzazione delle relazioni, e che non rende visibile il sindacato, almeno attraverso gli strumenti tradizionali. “Noi proviamo a organizzare assemblee virtuali. La partecipazione a volte è anche alta, spinta soprattutto dal passaparola dei colleghi più anziani, ma non hai mai la certezza che ti stiano realmente seguendo o stiano, più semplicemente, lavorando”, prosegue Baldi. “Impossibile sapere quello che accade dietro al monitor”.
Per i consulenti più giovani, una parte consistente della forza lavoro attuale, le cose si complicano anche di più. Non tutti hanno bene in mente quello che è il ruolo del sindacato, figurarsi lottare per un contratto integrativo. L’idea più diffusa è che a provvedere ai bisogni dei lavoratori sia l’ufficio del personale. “Nella mia azienda l’accordo sullo smart working, che comprende ad esempio il diritto alla disconnessione, è stato una nostra conquista ma non tutti ne sono a conoscenza”, sottolinea Baldi. “Chi ha un problema si rivolge alle Risorse Umane, senza capire che in realtà l’HR è parte dell’azienda stessa e di fatto tutela i propri interessi”.
È il sindacato che non fa più presa sui lavoratori o sono le logiche della consulenza a essere incompatibili con le rivendicazioni sindacali?
“Un po’ entrambe le cose”, spiega Francesca Coin, sociologa del lavoro presso l’Università di Lancaster nel Regno Unito. “Di certo le strategie aziendali e comunicative portate avanti tra gli anni ‘90 e 2000 hanno avuto come obiettivo sovrapporre l’identità dell’azienda a quella del lavoratore, appiattendo il conflitto. L’azienda oggi si presenta come una famiglia e non incarnare i suoi valori vuol dire tradirla”. Anche per questa serie di ragioni, le condizioni di lavoro nel mondo della consulenza, con la crescita di volumi e produttività, sono peggiorate.
In un contesto fortemente caotico dal punto di vista della rappresentanza c’è chi ha deciso di colmare il vuoto lasciato dal sindacato. Si tratta della Tech Workers Coalition, la già citata coalizione di lavoratori IT e non solo, senza cui l’industria della tecnologia globale non esisterebbe. La TWC abbraccia programmatori, grafici, ingegneri, sistemisti, copywriter – professioni che attraversano il mondo della consulenza – oltre ad altre categorie come rider e operatori della logistica. Lo scopo è dare voce, diritti e forza a categorie di lavoratori che non trovano rappresentanza nel sindacato tradizionale. Tra gli obiettivi ci sono l’aumento di salario, la riduzione dell’orario e ambienti di lavoro più salubri.
Simone Robutti è tra i fondatori di TWC Italia. “Non siamo un sindacato, ma cerchiamo di offrire a chi si rivolge a noi gli strumenti per conoscere meglio i propri diritti: che cos’è una rappresentanza sindacale, come capire se ce n’è una in azienda, come contattarla e spiegare cosa può fare. Il problema è che oggi, nell’industria della tecnologia, la catena di comunicazione è rotta in questi punti”.
L’esempio per cambiare le cose arriva da oltreoceano. Negli Stati Uniti, Tech Workers Coalition e i suoi satelliti sono riusciti a entrare in alcune aziende strategiche del settore, da Google ad Amazon, promuovendo all’interno il conflitto sindacale. Nel tempo gli scioperi e le continue proteste hanno convinto le Unions statunitensi a supportare, anche economicamente, le loro iniziative. Un processo che ha poi portato, per riflesso, alla sindacalizzazione di un intero settore.
“È questo ciò che manca in Italia”, conclude Robutti. “Un percorso sindacale che, spinto allo stesso tempo dall’alto e dal basso, generi la coscienza di classe di una nuova generazione di lavoratori”.
Quella che, aggiungiamo noi, si avvia ad essere la più diffusa. (1-continua)

Sara Del Dot, Marta Facchini, Mattia Guastafierro.